Eccola lì! In un angolo opaco della mia stanza, la valigia di
un viaggio che per il momento è ancora solo nei miei pensieri.
Si parte, o forse no, vigilia di un capodanno che si tinge di speranze,
sento che tutto andrà per il meglio, ma intanto i minuti passano
e la partenza si fa sempre più incerta. Squilla il telefono,
OK per una volta i miei sensi hanno avuto la meglio, si parte. Per dove?
Con chi? Questo ancora non lo so, ma non mi preoccupa, volevo solo fuggire
ed ora è reale.
Il mio tragitto inizia da solo, devo raggiungere gli altri e poi con
loro proseguire; si con loro il resto della “ciurma”, ma
dentro di me so che questo viaggio è mio, l’ho voluto tanto
e in qualche modo lo difenderò dalle intemperie che sento arriveranno.
Cosi vedo la cosa, viaggiare è guardarmi dentro, scoprire attraverso
nuovi luoghi, vecchi me.
Solo io e i miei pensieri, e tra di noi impareremo qualcosa in più
l’uno dell’altro.
Siamo al freddo io e Mary, aspettiamo, rendendo allegra una sottile
paura di ciò che non conosciamo bene. Arrivano gli altri! L’aria
è fredda, secca e un po’ tesa, ma arriva la notte e con
lei resto solo, ad assaporare vecchi ricordi, di luoghi che mi scorrono
sopra, con il passato che indossano.
In poco tempo eccola già lì, la Svizzera, con i suoi giganti
di roccia, (fa sempre un certo effetto trovarcisi immersi). Dormo un
po’, sono esausto, è forse l’ora di assaporare con
altri sensi, la libertà che mi trasmettono queste viste.
Il viaggio prosegue senza di me, mi assento rivolto a guardare quello
che lascio, è strano abbandonare le cose, ma a volte c’è
bisogno di liberarsi di quello che possediamo, per scoprire la bellezza
di essere nudi.
Scorre via veloce la strada e non appena riapro gli occhi torno alla
giuda, voglio viverlo tutto l’arrivo nella città dai mille
nomi, si perché ad ogni km di strada la bella Luik o Lutich,
si trasforma in una più francese Liège. Siamo all’uscita
di un piccolo cavalcavia, eccola davanti a me, si apre nella coltre
di nebbia la città dei miei desideri. È strana l’aria
intorno a noi, la città è silenziosa, ovattata dalle gocce
di pioggia che le bagnano il viso. La schiera di case che costeggiano
il fiume, sembra darci il benvenuto, ogni casa con le sue espressioni
diverse ma armoniose, in quella che definirei un’architettura
dal dolce contrasto, colori e sapori si mischiano nella mia mente, odori
di una nuova terra che sa già un pò di casa. Si parte
alla scoperta di questa città, inizia tutto dalle insegne luminose
di un sexy shop, e poi tante strade, mille incroci, ancora tanti pensieri
irrisolti nella mente, ma ci lasciamo trasportare dall’atmosfera
dolce di queste persone, che sembrano dire solo “bonne annèe”,
è cosi che la gente ci accoglie, con un sorriso che sembra lo
specchio del nostro, nel trovarci cosi tanto bene tra la novità
di un'altra cultura. È veramente un luogo da scoprire questa
Liège, con le sue mille luci di “Place St. Lambert”
il teatro, e poi allontanandosi, tanti vicoli bui, ad indicare un senso
di riservatezza, qui si entra nelle case della gente e lo si fa pian
piano in punta di piedi.
Gli infissi, si gli infissi, come dice la mia amica Lulu, ci parlano
della persone, e qui ci dicono che sono aperte, aperte agli altri, calde
e accoglienti.
Finisce qui il racconto della misteriosa Liège, una piccola cittadina
che sento di dover rincontrare prima o poi. Si riparte, questa volta
il tragitto è breve, appena pochi km ed entriamo a Maastricht,
l’atmosfera qui si fa tesa e nervosa, colpa del freddo e della
pioggia, della stanchezza, ma anche del silenzio, delle attese, delle
risposte che non arrivano.
Mi difendo io, tengo duro e cerco di aiutare gli altri a fare lo stesso,
a scoprire che i fantasmi, non si riflettono negli specchi, e se lucidi
quelli del tuo animo, nessuno può insidiare in te spettri che
non ti appartengono.
Saliamo su un battello, c’è aria di tempesta, ma siamo
forti, anche tra le gelide onde del nord e gli andiamo incontro, curiosi
di sapere i segreti che nasconde il loro mare.
Sembra uno Tsunami quello che ci colpisce sulle fiancate, è forse
più piccolo di quello vero, ma non per le nostre fragili ossa,
per loro basta e avanza. Sotto i colpi di uno sconsiderato, avido, egoista
Nettuno, cambia in fretta la nostra immagine degli dei, che ora appaiono
come malefici diavoli, ingiusti con le loro facili ira, per degli onesti
viaggiatori, che non chiedevano altro che un soffio di vita.
È in pezzi ormai la barca, solo frammenti di tavole rotte, piccole
schegge di un capodanno.
Il cupo cielo olandese illuminato da lampi di festa, ci appare come
distorto dai nostri pensieri, e suoni e colori si trasformano in paure,
sembra l’atmosfera di una guerra e mi sento schiavo, impotente
e in collera con i padroni dell’odio che ci rubano la vita, e
tra fastidiose bombe fragorose nell’aria, cerchiamo una via di
fuga da tutto questo.
Raccogliamo quanto resta dalla tempesta e ci allontaniamo, troviamo
un riparo, entriamo per scaldarci l’anima, del buon “Southern
Comfort” per l’occasione, ricordi di momenti migliori, è
questo forse quello che ci serve, la consapevolezza che sappiamo cambiare
il corso degli eventi.
Va un po’ meglio ora, usciamo allo scoperto per vedere cosa è
rimasto e cosa è andato perso, da bravi soldati facciamo un giro
di perlustrazione, per vedere se è rimasto qualcosa da salvare
di una città bombardata. Per le strade piccoli folletti di bronzo,
è a loro che chiediamo aiuto, c’è bisogno di un
po’ di magia, di una fata incantata che ci insegni la strada.
Voltiamo un angolo e un lampo ci abbaglia, veniamo risucchiati in una
graziosa abitazione, profumi di amicizia, di amore e di semplicità,
dolcetti del nord, e un libro incantato che in se contiene il seme della
fratellanza, dell’unione di colori diversi che nelle loro sfumature,
danno vita all’arcobaleno.
La tempesta è finita, i folletti ci hanno ascoltato, e noi li
ringrazieremo sempre per averci detto che senza il nero non vedresti
il bianco, e devi essere grato ad entrambi perché l’uno
senza l’altro non avrebbe senso. Ora abbiamo una nuova imbarcazione,
certo non ha ancora superato le prove dell’oceano, ma conosciamo
meglio questi mari e sappiamo come muoverci.
Si riparte, è ora di scoprire quanto più possibile di
una terra che ci ospiterà ancora per poco; saliamo su un treno
carico di speranze, il paesaggio fuori mi dona un senso di quiete, verdi
paesaggi scorrono accanto a me, e la loro bellezza è il presagio
di ciò che mi aspetta.
Sono molto eccitato, finalmente sto per raggiungere Bruxelles vera meta
del mio viaggio. Un salto fuori dalla porticina della stazione e davanti
a me si apre un nuovo mondo, è proprio come la immaginavo la
capitale d’Europa, ad ogni sguardo si incrociano mille vie, con
scorci bellissimi, niente è banale, qui ogni palazzo è
sapientemente posizionato a creare un incastro perfetto e fantasioso,
una città d’arte, l’arte di disporre le cose in armonia,
è questo il senso che ispira, equilibrio e pace; sono euforico.
Non conosco niente di questi posti e cosi mi lascio guidare dal senso,
dalla vista, da ciò che più mi attira e cosi, come calamitato
dalla bellezza delle cose, gli vado incontro.
Ci arrivo dalla parte che non mi aspetto, ma la riconosco subito, Saint
Michel, è bellissima, imponente e leggera, vista da dentro sembra
non avere fine, una pianta a croce e tre navate, ma un senso di spazio
che si apre verso l’infinito.
Faccio fatica a venirne fuori, ma il tempo stringe e c’è
molto da scoprire, in realtà non so ancora cosa sia questo molto,
ma mi aspetta e non posso farlo attendere.
Eccomi ad un incrocio di vie, mi appaiono come alternative per nulla
uguali, dalla mia scelta dipenderà il mio percorso, unico e irripetibile.
Punto a nord, fino adesso mi ha portato fortuna, salgo una lunga scalinata,
dall’alto vedo meglio tutta la città, e la scelta ora diventa
più facile.
Un palazzo intrigante mi invita ad entrare, la fortuna ha bussato alla
mia porta, Magritte, Dalì, li cercavo e proprio allo scadere
del tempo, sono caduti tra le mie braccia.
La mostra è una fantastica scoperta, non conosco bene le opere,
l’arte moderna non mi affascina molto, ma guardando attentamente,
scopro che contiene dei messaggi nascosti, un tentativo di entrare dentro
l’osservatore attraverso la violenza, senza filtri, convenevoli
o buone maniere, un arte che è come la gente del suo tempo, più
sfacciata, diretta e soprattutto megalitica; megalomane.
Ore cinque si chiude tutto, siamo costretti (e forse è meglio
cosi) a tornare tra le strade, uno sguardo veloce e dopo i canti celtici,
di una chiesa gotica, prendo uno scivolo che mi porta dentro un libro
di fiabe, non può essere che questo, “Gran Place”
, non è opera umana, i cuori della gente non hanno mai tanto
spazio per tutta questa fantasia, questo gioco, forse i bambini, loro
si, le risate che ci chiamano, forse è opera loro. L’atmosfera
che si respira è incantata, ogni angolo di visuale è uno
scintillio di luci, forme e colori si mischiano in continuazione dando
vita ogni volta a nuove conformazioni, è viva Gran Place, si
trasforma, si modella, sembra poter cambiare in ogni istante come non
ti aspetti, sembra perfino poter cambiare la gente, e lo fa, si torna
tutti bambini qui, non c’è spazio per domande, pensieri,
problemi.
La torre del castello, si perde nel cielo, faccio fatica a vederne la
fine, mi metto sotto di lei per sentirne la voce, “che strana
sensazione”, sembra schiacciarti a terra, e per una sorta di contrappasso,
allo stesso tempo liberarti verso le stelle.
Gioco un po’ con gli abitanti, di questo mondo magico, ci parlo,
mi faccio raccontare le storie, i segreti, ascolto inebriato le loro
voci, che mi portano via verso mondi lontani ed eterei.
Vengo ad un tratto scaraventato nella realtà, sono veramente
infastidito, cerco di liberarmi in volo, ma non sono capace di oppormi
con forza, ai cattivi pensieri della gente, non riesco a far finta di
niente, in qualche modo chiudere gli occhi e non vedere.
Dico un ciao ai miei amici folletti, e torno tra gli amici reali.
Grida di desideri bussano alla mia porta, le ignoro, loro insistono,
cercano in me un po’ di rassicurazione, vogliono sentirsi buone,
vogliono che io le aiuti, ma sono per me una medicina dal sapore amaro,
un sottile dolce veleno, che allevia superficialmente la pena, ma nutre
il virus che si agita in profondità. Resto muto, il mio volto
marmoreo urla il mio faticoso dissenso, non c’è voce o
silenzio, che riesca a fermare la travolgente rinuncia al capire; quando
più semplice e spianata appare la strada che porta alla consolazione.
Resto cosi, impassibile, cercando di rimanere attaccato, al mio senso
di verità, non scendendo a compromessi, e cercando, di salvare
me stesso, da quei diavoli che attentano alla mia felicità.
Si è rotta la magia, l’impossibilità di volare libero
ora che potrei, mi lascia pensieroso, cerco una via di fuga dal contrasto
di emozioni che mi aggirano, trovo una scorciatoia, la prendo e torno
ad un mondo che, nella sua mediocre esistenza, si rivela un ottimo riparo,
in cui nascondermi al buio, lasciando la scena agli altri attori.
Sul palcoscenico, un bicchiere sfugge dalle mani stanche del commediante,
mille piccoli frammenti di vetro, si scagliano sul primo spettatore
della scena e si conficcano in profondità, non lasciando vita,
nel corpo della vittima impotente. Fortunatamente, sono solo scene di
una folle recita e basta poco a mandarne via il ricordo. Ancora poche
ore, corriamo via veloci per le strade, cercando di cogliere quanti
più attimi possibili di queste viste, sembra di allungare lo
scorrere del tempo, e per un pò è anche una sensazione
reale.
Un ultimo saluto a Saint Michel è doveroso, sono curioso di vederla
in vestito da sera.
È incantevole, riservata, scopre il lato che di giorno non si
vede, nel buio nasconde la sua imponenza e la ritrovi misteriosa, intoccabile,
inavvicinabile.
Si sale in macchina è ora di andare via, di lasciare nei ricordi,
un viaggio bellissimo, ma c’è un’ultima tappa che
non vorrei perdere, qualcosa che nella mia mente, sembra come il completamento
di un lungo percorso, la voglio troppo e forse con l’irrefrenabile
desiderio che scorre nei miei occhi convinco, chi mi sta intorno a cercare
assetato, un posto che qui a Bruxelles sembra nascosto agli occhi dei
passanti.
Parliamo di un colosso di metallo alto 107 metri, ti aspetti di vederlo
davanti a te ovunque volgi lo sguardo, ma niente, nemmeno l’ombra.
La ricerca diventa infinita, ma pian piano sentiamo che il cerchio si
stringe, e la sensazione è che ora sta diventando una sfida,
so che lo troveremo, so che non possiamo più andare via senza,
siamo in uno di quei momenti che segnano un viaggio, a volte, permettetemi
l’esagerazione, una vita. Si, perché la vita, si decide
anche in tutti quei momenti in cui non si abbandona la ricerca di quello
che non si conosce e si continua a cercare, cercare, cercare.
Eccolo, il frutto di due ore d’instancabile naufragare, mi sovrasta
con la sua essenziale verità, mi risuona dentro il suo muto urlare,
l’Atomo, materia, struttura mutabile di ogni cosa, mentre nelle
mie vene scorre una droga naturale, la vita.
Riprendiamo la via di casa, è ora di tornare, di portare indietro
le nostre scoperte, non mi dispiace ripartire, è stato tutto
bellissimo, e non mi fa paura l’idea che domani potrebbe non esserlo.
Sulla via del ritorno molto silenzio, credo sia normale, molti pensieri
si affacciano, ciò che abbiamo lasciato prima di partire torna
ad affollarci la mente, guardo il cielo stellato cercando di disperdermi
in quel blu profondo, la luna, su un trono di roccia, mi svela il senso
profondo della vita.
Eccola li! La valigia, in un angolo buio della mia stanza, diversa da
quella che era partita, ha scoperto un po’ più di me, un
po’ più degli altri, e soprattutto ha assaporato un alito
di vita, consapevole che non le basta, consapevole che guardando in
fondo, voglio un Atomo dentro me ogni istante irripetibile della mia
vita.