Passeggiando in punta di piedi sotto un cielo celeste…

“Ti posso chiedere una cosa, Yungi? Perché le strade qui in Cina sono così tortuose? Perché ci sono tanti sentieri?”
“Per via dei demoni”
“I demoni?”
“Sì i demoni… gli spiriti… come li chiamate voi occidentali?”
“Non saprei, forse intendi i fantasmi…”
“Non so”
“Ok, ma che c’entrano i demoni con le strade tortuose, scusa?”
“I demoni possono andare solo diritti, avanti ed indietro. Ecco perché facciamo i sentieri in quel modo, così non possono inseguirci… Ed hanno paura degli specchi”
“Gli specchi?”
“Un demone, se si guardasse allo specchio vedrebbe il suo vero volto. E ne morirebbe. Per questo davanti alle case ci sono gli specchi”
Yungi è seduto su una panchina del parco Tiantan, il parco naturale più grande di Pechino, ai margini si vedono delle case, palazzi recenti di foggia occidentale. Nessuno ha degli specchi.
Lui le guarda con gli occhi, un po’ tristi un po’ stupiti, sembra quasi voler parlare e dire che quelle case moderne sono piene di demoni e spiriti malvagi.
Per forza, non ci hanno messo gli specchi.
Ma come al solito sta zitto, e riprende quella strana espressione con un sorriso a metà tra l’allegro ed il rassegnato, che hanno tutti i cinesi, almeno ai miei occhi.
Yungi ha poco più di quarant’anni, anche se ne dimostra almeno altri dieci, magro da far paura, di una magrezza così diversa dalla mia, che è figlia del mondo ricco ed opulento, perché è chiaro che quella è fatta di stenti. Le dita sono lunghissime ed incredibilmente sottili, rispetto al resto delle mani, delle braccia e del corpo, che ha le misure tipiche, assai ridotte, del popolo cinese. Le sigarette hanno lasciato evidenti tracce, con macchie un po’ ovunque, su quelle mani sgraziate.
La pelle è rovinata, specie quella del viso, dove il giallo tradizionale scolora in un verde che sa di emaciato. Le spalle sono troppo strette e tutta la figura nel suo complesso ti da l’impressione di essere pronta a volare via al primo alito di vento. Solo i capelli, lucidi e corvini, sembrano aver mantenuto una certa salute.
A Yungi gli occidentali come me, dice, tutto sommato piacciono, anche se abbiamo uno strano odore (i cinesi a quanto pare non sudano) ed andiamo sempre di fretta.
Lui vive in un sobborgo di Pechino, piuttosto lontano dal parco in cui ci troviamo a parlare adesso. Non ha moglie. Doveva sposarsi, ma l’avrebbe fatto solo ed unicamente per godere delle sovvenzioni statali per chi metteva al mondo figli. Comunque la ragazza alla fine l’aveva lasciato per un altro, si era sposata ed aveva fatto tre figlie femmine. Poverina, le femmine non garantivano adeguati finanziamenti. Forse adesso avrebbe avuto un maschio, ma lo stato non dava più nulla.
Tanto meglio comunque, lui viveva bene anche da solo: per dirlo faceva un gesto, molto orientale nella sua grazia, lasciando fluttuare la mano nell’aria, tesa verso il cielo, e sorridendo. Se questo era il destino, il suo hongsui, lui l’accettava, come del resto aveva sempre accettato tutto.
Aveva accettato la morte di suo padre, che si sarebbe potuto definire un intellettuale, anche se era un semplice professore scolastico, che aveva persino fatto l’università e si era laureato in lettere, prima della guerra e dell’arrivo di Mao. (Mao Zedong - divenuto leader incontrastato del partito comunista cinese negli anni precedenti la seconda guerra mondiale - il 1° ottobre 1949 proclamò la nascita della Repubblica Popolare Cinese che a lungo non venne riconosciuta dagli USA come governo legittimo; i primi rapporti diplomatici vennero riallacciati sotto il governo di Nixon).
Suo padre, che aveva perso il lavoro a scuola, aveva finito per diventare un alcolizzato ed un giorno era scomparso. Chissà com’era morto.
Nel periodo della rivoluzione culturale non si contavano più le occasioni in cui le Guardie Rosse piombavano in casa, nel cuore della notte, e picchiavano suo padre, una volta anche sua madre (Mao lanciò la cd. “rivoluzione culturale” nel periodo 1966/1970 con la diffusione del suo libretto rosso di citazioni, l'epurazione di ogni forma di opposizione e l'utilizzo delle Guardie Rosse. Le G. R. erano una sorta di polizia statale frequentemente reclutata tra la popolazione il cui scopo era quello di punire delatori, spie e presunti oppositori del regime. Spesso si finiva per colpire semplici persone comuni non allineate).
“Li picchiavano e perché?” chiedo
Yungi stringe ancora di più le spalle.
“Mio padre voleva pensare, non voleva che altri decidessero per lui… ma si sbagliava. E’ molto meglio se non pensiamo troppo, lasciamo ad altri le decisioni importanti.
Potevamo essere sereni, mio padre ha sbagliato tutto”
Sua madre voleva fare l’attrice, di teatro, ma era finita, dopo la crisi del marito, a lavorare in una fabbrica di scarpe per 10 ore al giorno, per una paga che permetteva appena di sfamare lui e le sue due sorelle. Alla fine aveva persino disimparato a leggere e a scrivere. Adesso, a quanto pare, viveva alle spalle di un marito delle figlie.
Yungi significa bello, come il suo sorriso, così incredibilmente sereno malgrado le difficoltà che sicuramente aveva dovuto affrontare, in una vita ai margini.
Oramai la principale, se non unica, fonte del suo reddito consisteva nel vendere ai turisti, occidentali, ma anche giapponesi, coreani e persino cinesi, piccoli souvenir come portagioie in giada lavorati a mano oppure ombrellini di cartapesta. Il suo vero tesoro erano però delle monete antiche, grossissime e perfettamente rotonde, che erano appartenute a suo padre, risalenti, a suo dire, al secolo scorso.
Ho conosciuto Yungi, per l’appunto, quando ha cercato di vendermi una moneta di queste, avendomi individuato come sprovveduto turista, affranto dal caldo e dall’immensa grandezza del parco.
Dubitavo molto della loro autenticità (e mi sbagliavo, come ho potuto accertare una volta ritornato in Italia), ma alla fine mi sono fatto convincere a comprarne un paio, delle più piccole, per poco più di venti dollari. Al momento l’ho considerato un gesto di pietà, che speravo non mi avrebbe creato problemi alla dogana: mi sono sentito molto in colpa quando ho scoperto che valevano quasi dieci volte tanto.
Evidentemente Yungi era proprio disperato, per essere giunto a vendere il suo tesoro.
“Ultimamente la Cina non la si riconosce più, sta cambiando tutto troppo in fretta”, si lamenta il mio nuovo amico.
In effetti i segni del capitalismo imperante balzano agli occhi di tutti: Mc Donalds e boutiques sorgono ai margini di Piazza Tien An Men e della Città Proibita, le ragazze cinesi, così belle nella loro pelle di porcellana, vestono in minigonna ed hanno labbra ed occhi finemente truccati, grosse macchine italiane e tedesche sfrecciano per le ampie strade di Bejing guidate dai giovani rampanti, un po’ ridicoli nei loro abiti gessati troppo grandi per persone così minute, sfiorando le moltitudini di biciclette che affollano disordinatamente la carreggiata.
“All’improvviso sono comparsi, non si sa da dove sono venuti”
“Chi, scusa?” chiedo a Yungi.
“I ricchi”
Passeggiamo verso la piazza, incrociando un numero incredibile di bambini vocianti che escono da uno dei mille templi che sorgono inaspettatamente in mezzo alla case. Mi squadrano, la mia testa rasata ed abbronzata li incuriosisce e, forse, intimorisce perché si zittiscono appena ricambio il loro sguardo.
E’ solo un attimo, poi ci ritroviamo in mezzo ad una vera e propria folla. Siamo in pieno agosto, ma tutti sembrano così disperatamente indaffarati (In media un lavoratore dipendente cinese non ha più di 7 giorni di ferie all’anno. La settimana lavorativa è di 6 giorni effettivi. L’orario normale di lavoro è di 10 ore al giorno - in Italia è di 8 ore -).
“Prima non c’erano ricchi in Cina, Yungi?”
“Eravamo tutti ricchi, perché avevamo tutto quello che ci serviva per vivere. Niente di più e niente di meno. Adesso molti non hanno niente. Ma non è questo il problema”
“Qual è il problema, allora?”
“Guadagnare denaro è come bere da un bicchiere senza il fondo. Puoi continuare a farlo ma non arriverai mai a dissetarti. Il denaro vuole altro denaro”
“Così dice il Saggio?” chiedo sorridendo.
“Così dico io” ride Yungi.
Chissà dove trova questa sua spensieratezza… forse nasce dalla stessa disperazione che l’opprime.
Mangio un litchi . E’ un frutto molto minuscolo, poco più grande di un acino d’uva, rossastro, spesso lo chiamano anche “uva del paradiso”. La sua polpa, anche se dolcissima, è dissetante. E’ quello che ci vuole per placare l’arsura, quasi tropicale. Penso che in buona parte sia causata anche dall’inquinamento, la zona industriale di Pechino è enorme, Yungi passa il tempo squadrando i passanti e sistemando la sua chincaglieria, che raccoglie in due sacchetti un po’ sbrindellati, di quelli per la spesa. Per ringraziarlo della compagnia alla fine della giornata gli regalerò il mio vecchio zaino, cosa che lo renderà felice come un bambino. Avrei voluto lasciargli anche il cappellino, ma il sole era troppo impietoso per una testa senza capelli come la mia…
Ad un certo punto, mentre ancora succhiavo una fetta del meloncino, gli chiedo:
“Ma tu quando ci fu la rivolta di Piazza Tien an men dov’eri?”
Yungi mi guarda più o meno come se gli avessi chiesto se gli piace il gelato al pistacchio: mantiene un’aria impassibile e distaccata, gli occhi nerissimi non hanno neanche un bagliore di luce.
(Con Deng Xiaoping successore di Mao alla guida del paese e con la firma nel 1984 della Dichiarazione congiunta sino-britannica, la Cina si avviò verso un periodo di ristrutturazione economica. Fu concessa la vendita delle eccedenze agricole sul libero mercato e vicino a Hong Kong e a Taiwan furono create delle zone economiche speciali che diedero ottimi risultati. In campo politico le riforme invece furono pressoché nulle. L'insoddisfazione generale nei confronti del partito, l'elevato tasso di inflazione e la crescente richiesta di riforme democratiche provocarono ampi disordini sociali, culminati con le dimostrazioni del 1989 che si conclusero con il sanguinoso massacro di piazza Tien an men).
“La rivolta? Fu una cosa degli studenti… io c’ero sai? Ero lì, perché allora lavoravo in una ditta che puliva il pesce e lo metteva nelle scatole, ma che aveva quasi chiuso, perché si sentiva che qualcosa stava succedendo. Un giorno nessuno degli operai venne al lavoro, solo io. E trovai le porte chiuse. Chiesi dov’erano tutti, ed il padrone, che era un vecchio avaro, figlio di un dirigente politico, si mise ad urlare contro di me. Mi insultò e mi disse di tornare da dov’ero venuto. Allora io andai verso la piazza, a piedi perché mi avevano rubato la bicicletta, almeno mi pare. E la gente piangeva, gridava. Una donna mi urlava di aiutarla. E tutti dicevano che c’era l’esercito. E io pensavo che erano i soliti militari che facevano la solita parata. Ma quella volta c’era davvero l’esercito, c’erano persino i carrarmati. E sparavano contro la gente che piangeva. Io poi sono fuggito. Sono scappato da Pechino, sono tornato in campagna da mio zio, che anche se non mi voleva mi fece rimanere a lavorare da lui, nella sua fattoria, per un paio d’anni. Poi sono scappato anche da lì e sono tornato a Pechino”
Yungi si interrompe all’improvviso: ha notato una coppia di ragazzi europei che camminano abbracciati in una delle polverose vie del parco e si lancia veloce ad esporre la sua mercanzia. Immediatamente questi si stupiscono dell’ottimo inglese di Yungi, che l’ha imparato leggendo libri del padre scampati ai roghi cui erano destinati i testi occidentali. Deve avere un’intelligenza notevole, penso, mentre finisco il mio litchi.
Sono sufficienti pochi minuti di contrattazione e Yungi riesce a rifilare una piccola spilla di giada, raffigurante una graziosa bambina cinese, alla ragazza della coppia, che se la sistema tra i capelli lunghi e biondi.
Yungi torna a sedersi sulla panchina, vicino a me, mostrandomi la banconota da due dollari che stringe tra le mani.
“Olandesi” mi dice.
“Sei riuscito a vendere a dei mercanti nati! Festeggiamo” gli passo l’ultimo dei miei frutti, quello che sembra più succoso.
“Carina la ragazza olandese eh?”
“Nessuna donna è bella come una cinese”
“Se lo dici tu”
Le ombre cominciano ad allungarsi dietro agli alberi, per me è quasi ora di rientrare in albergo: oggi è il mio ultimo giorno a Pechino.
Domani sveglia all’alba, visita alla Grande Muraglia e poi partenza per Shangai: è la dura vita del turista.
Quando mi alzo, mi verrebbe da dire ad Yungi “arrivederci”, anche se mi rendo conto che sarà quasi impossibile rincontrarlo.
“Il grande uccello che credevate addormentato per sempre, era solo ferito”, mi dice stringendomi la mano
“Come scusa? Cos’è il grande uccello?”
Allarga la mano sempre con quel suo fare soave indicandomi il cielo di Pechino.
“Potrebbe morire ma anche alzarsi e volare più alto che mai”
“Cosa vuoi dirmi Yungi, che noi occidentali dobbiamo avere paura della Cina?”
Scrolla le spalle magrissime e comincia ad allontanarsi con il mio zaino nero, ultimo ricordo del liceo.
Se ne va come era venuto Yungi Shu, passeggiando in punta di piedi sotto un cielo celeste.