Ho gli occhi pieni di lacrime e di Inghilterra. Le colline verdi chiazzate
di pecore si sciolgono in acqua, nei miei occhi, nel Mare del Nord.
Il paesaggio non ha odore, ma suona di motore, ruote, musica e strada.
Quante miglia si sono srotolate sotto i nostri piedi, mentre noi eravamo
fermi, tiepidi e assonnati nell’abitacolo quasi comodo di questa
vecchia Rover? E dove si trova Massimo ora? Dove può essere,
se non con lei, sotto un sole che non rimpiango per come disidrata le
cose e le appiattisce sullo sfondo? Preferisco questo cielo che è
sempre in movimento. A volte la macchina va più veloce delle
nuvole, a volte le rincorre senza poterle raggiungere.
A volte la sofferenza è così dolce che vorrei non dovermene
separare mai. E’ stata amichevole durante questa settimana, come
se avesse trovato il modo di uscire da me e di insinuarsi nel paesaggio
che sfilava accanto al finestrino gravido di pioggia, come se avesse
permesso al fulgore di queste colline di mescolarsi ad essa, trovando
così una dimensione quasi fluida, quasi naturale. Nel fondo del
mio cuore ho sempre saputo che Massimo non era l’uomo che avrei
desiderato incontrare ed amare per tutta la vita, quello da cui farmi
proteggere e riscaldare, ma la mia mente ha voluto e ha permesso fosse
così. Avevo così tanto bisogno di amore? Andrew non conosce
le ragioni del mio umore plumbeo e dei miei occhi acquosi; la nostra
amicizia è e deve restare qualcosa di cortesemente superficiale.
Lo reputo un ragazzo intelligente, ma non ho nessun desiderio di abbattere
le frontiere della lingua e della cultura e di entrare in un contatto
stretto e vivo con lui. Il mio inglese è migliore del suo italiano,
ma nove volte su dieci mi rifiuto di parlarlo adducendo come scuse la
stanchezza e la pigrizia. Il suo modo di esprimersi nella mia lingua
è fantasioso, frutto più di invenzione ed intuizione che
di una vera conoscenza. Ma io lo trovo divertente e, ascoltandolo, sorrido.
E al mio sorriso anche la sua bocca si distende e sembra che tutto possa
procedere così. Almeno ancora per un po’. Per un altro
giorno, almeno. E continuiamo a percorrere miglia coi sedili sotto il
culo, mentre fuori piove e tira il vento e la Scozia vive di luce e
di nebbia e di verde e dentro di me canta una canzone in forte dissonanza
col contorno. Una canzone di rabbia, impotenza, disperazione e ancora
rabbia. Ascoltiamo Carmen Consoli e gli U2, i Green Day e David Bowie
e, a seconda della musica, il paesaggio sembra cambiare appena sfumatura,
farsi più terso e più solare oppure più cupo, più
ostile. Tutto quel verde, che è aspro e dolce insieme, mi perfora
gli occhi e mi lenisce piano piano le ferite, ma non del tutto. La mia
rabbia è troppo antica perché si lasci raggirare.
Ieri sera ho annusato l’aria stiracchiandomi nel parcheggio dell’albergo,
mentre Andrew fissava il blocca-sterzo al volante della sua Rover decrepita.
La sera era intrisa di un’umidità brillante: il sole tramonta
molto tardi qui nell’ovest e ti dà l’idea tangibile
di avere raggiunto un posto di frontiera. Il giorno cede il passo alla
notte con riluttanza, ritagliandosi nel cielo squarci luminosi che virano
al blu. In questa piccola vallata si sdraia un lago che sfocia nel mare
un centinaio di miglia più a sud, la sua acqua sciaborda con
onde leggere, nel suo odore c’è appena una venatura di
salmastro.
La strada mi aveva cotto le gambe ed i pensieri; è stato un piacere
fisico, ieri sera, fare due passi sull’asfalto, sgranchirmi le
articolazioni e lasciarmi schiaffeggiare dal vento freddo; fumare una
sigaretta in santa pace guardando le luci del villaggio bianco sulla
sponda opposta del lago; potermi chiedere qualcosa delle facce e dei
pensieri degli uomini che vivono al di là dell’acqua, poterlo
fare e non farlo: scegliere di essere leggera.
Abbiamo sistemato i bagagli nella piccola stanza rosata con letti separati
che ci hanno assegnato alla reception. L’arredamento è
vecchio e squallido, odora di polvere e di varia umanità, delle
persone che hanno alloggiato qui prima di noi. Ma per noi va bene così,
noi siamo alla ricerca solo di un riparo caldo per una notte o forse
due, di qualcosa che ci accolga e ci consenta di restare distanti. Mi
sono sentita esausta poi, nel pub rumoroso, mentre sforchettavo tra
le salsicce e la poltiglia di patate e succo di mela che fumava dal
mio piatto, stanca ma quasi appagata, mentre mi rimpinzavo lo stomaco
e la birra scivolava giù fresca a liberare altro spazio. La mia
coscienza vacillava tra la veglia e il sonno e non pensavo nemmeno più
a Massimo, mi abbandonavo alla mia stanchezza e all’intorpidimento
dei sensi, lasciavo che si dilatassero a dismisura nel mio stomaco,
senza opporre resistenza. Andrew ha detto: “Lo sai che lei è
bellissima…” ed io ho sbattuto le palpebre e mi sono guardata
attorno al rallentatore tra il fumo e le luci melliflue alle pareti,
prima di capire che stava parlando di me e questo è stato sufficiente
a farmi ritrovare un contatto con la realtà. Gli ho fatto un
breve discorso didascalico sulla nostra amicizia. Lui ha emesso un piccolo
sospiro rassegnato, l’ho guardato deglutire ciò che rimaneva
della sua seconda pinta di Ale. La mia birra era ormai calda come brodaglia,
ma l’ho finita lo stesso, con la sigaretta accesa tra le dita
e i piedi che battevano un ritmo nervoso sulla moquette. Avevo solo
voglia che la musica tacesse e che fosse già domani. E poi non
sono affatto bellissima.
Oggi percorreremo una strada che si snoda tra montagne più alte
e più cupe di quelle che attorniano il paesello dove alloggiamo.
Siamo diretti verso uno dei castelli più suggestivi e meglio
conservati della Scozia occidentale. Il cielo è grigio, gonfio
di tempesta più che di vento. Chiedo ad Andrew di accendere il
riscaldamento mentre lasciamo il parcheggio e ci dirigiamo a nord. Lui
mi guarda con un’interrogazione ansiosa negli occhi azzurri, quasi
trasparenti. Gli dico che sto bene, che ho freddo e che devo solo svegliarmi
del tutto. Lasciamo Fort William con un CD dei Clannad nel lettore e
grosse gocce di pioggia che si riversano sul parabrezza a secchiate
violente. Dopo una decina di minuti di strada notiamo un lago oblungo
alla nostra sinistra, parzialmente nascosto dalle rocce alte che digradano
verso la sua riva. Non c’è anima viva lì attorno,
dall’abitacolo riusciamo a percepire solo frescura d’acqua
e silenzio. Andrew dice che al ritorno potremmo fermarci lì e
fare un pic-nic. Dice che potrebbe insegnarmi a lanciare i sassi sulla
superficie dell’acqua e a farli saltare. Fino a dieci rimbalzi,
mi dice. Mi giro a guardare il suo profilo di nuovo concentrato sulla
strada ed è pallido e ossuto, squadrato e delicato assieme, mentalmente
gli sorrido e mi sento quasi a casa. Oggi ho deciso di essere felice.
Dopo avere visitato il castello ci siamo fermati sull’isoletta
che lo ospita, sugli scogli erano aggrappate conchiglie così
antiche che parevano fossili. Mi è piaciuto far scorrere le dita
sulla loro superficie rugosa; non pioveva più. Andrew era impaziente
di tornare sul lago e di allestire il nostro pic-nic sulla strada verso
casa. Abbiamo comprato birra e patatine al negozio del distributore
di benzina; io mi sono accomodata sul sedile, pronta a lasciarmi venire
la strada incontro. Abbiamo raggiunto il lago nel giro di mezz’ora,
parcheggiato in un’ansa ghiaiosa occupata per un decimo dalla
casupola di latta di un rivenditore di hot dog. Ci dirigiamo verso la
sponda del lago, oltrepassando un rigagnolo nel punto in cui alcuni
sassi formano una piccola cascata; raggiungiamo un isolotto infestato
di mosche. Ricomincia a piovere un’acqua sottile, le mosche vanno
a riposo, noi scendiamo verso la riva. Sgranocchio le patatine seduta
su un sasso, guardo la foschia alzarsi dall’acqua e raggiungere
il cielo. Andrew sceglie con cura i sassi sulla riva, devono essere
piatti e non troppo pesanti, mi spiega. Ne trova alcuni, li mette in
tasca tutti tranne uno, si accuccia a pelo dell’acqua e lo scaglia
lontano, cinque rimbalzi leggeri prima di vederlo affondare nel lago.
Si gira a guardarmi con le guance arrossate e un largo sorriso. Mi dice
di avvicinarmi, mi consegna un sassolino, mi spiega come fare. Il segreto
sta nella rotazione, dice, non sono le dita che devono dare la spinta,
ma solo assecondare il movimento del polso. Ci provo. Il mio sasso affonda
subito con un risucchio sordo nel fondo del lago. Andrew non si dà
per vinto, mi mostra il movimento nell’aria, la mano bianchissima
che taglia la pioggia. Mi riaccuccio, fronte corrugata, occhi concentrati.
Ogni volta che mi sembra il momento giusto, cambio idea e abbasso la
mano, dico che non ce la posso fare. E all’improvviso lo lancio
lontano, senza pensare. Quattro rimbalzi. Mi alzo in piedi sulla roccia,
urlando e ridendo di allegria e incredulità. E’ la prima
volta da anni che riesco a vivere il momento.