Scotland: oggi ho deciso di essere felice

Simona Belletti [email protected]

Ho gli occhi pieni di lacrime e di Inghilterra. Le colline verdi chiazzate di pecore si sciolgono in acqua, nei miei occhi, nel Mare del Nord. Il paesaggio non ha odore, ma suona di motore, ruote, musica e strada. Quante miglia si sono srotolate sotto i nostri piedi, mentre noi eravamo fermi, tiepidi e assonnati nell’abitacolo quasi comodo di questa vecchia Rover? E dove si trova Massimo ora? Dove può essere, se non con lei, sotto un sole che non rimpiango per come disidrata le cose e le appiattisce sullo sfondo? Preferisco questo cielo che è sempre in movimento. A volte la macchina va più veloce delle nuvole, a volte le rincorre senza poterle raggiungere.
A volte la sofferenza è così dolce che vorrei non dovermene separare mai. E’ stata amichevole durante questa settimana, come se avesse trovato il modo di uscire da me e di insinuarsi nel paesaggio che sfilava accanto al finestrino gravido di pioggia, come se avesse permesso al fulgore di queste colline di mescolarsi ad essa, trovando così una dimensione quasi fluida, quasi naturale. Nel fondo del mio cuore ho sempre saputo che Massimo non era l’uomo che avrei desiderato incontrare ed amare per tutta la vita, quello da cui farmi proteggere e riscaldare, ma la mia mente ha voluto e ha permesso fosse così. Avevo così tanto bisogno di amore? Andrew non conosce le ragioni del mio umore plumbeo e dei miei occhi acquosi; la nostra amicizia è e deve restare qualcosa di cortesemente superficiale. Lo reputo un ragazzo intelligente, ma non ho nessun desiderio di abbattere le frontiere della lingua e della cultura e di entrare in un contatto stretto e vivo con lui. Il mio inglese è migliore del suo italiano, ma nove volte su dieci mi rifiuto di parlarlo adducendo come scuse la stanchezza e la pigrizia. Il suo modo di esprimersi nella mia lingua è fantasioso, frutto più di invenzione ed intuizione che di una vera conoscenza. Ma io lo trovo divertente e, ascoltandolo, sorrido. E al mio sorriso anche la sua bocca si distende e sembra che tutto possa procedere così. Almeno ancora per un po’. Per un altro giorno, almeno. E continuiamo a percorrere miglia coi sedili sotto il culo, mentre fuori piove e tira il vento e la Scozia vive di luce e di nebbia e di verde e dentro di me canta una canzone in forte dissonanza col contorno. Una canzone di rabbia, impotenza, disperazione e ancora rabbia. Ascoltiamo Carmen Consoli e gli U2, i Green Day e David Bowie e, a seconda della musica, il paesaggio sembra cambiare appena sfumatura, farsi più terso e più solare oppure più cupo, più ostile. Tutto quel verde, che è aspro e dolce insieme, mi perfora gli occhi e mi lenisce piano piano le ferite, ma non del tutto. La mia rabbia è troppo antica perché si lasci raggirare.
Ieri sera ho annusato l’aria stiracchiandomi nel parcheggio dell’albergo, mentre Andrew fissava il blocca-sterzo al volante della sua Rover decrepita. La sera era intrisa di un’umidità brillante: il sole tramonta molto tardi qui nell’ovest e ti dà l’idea tangibile di avere raggiunto un posto di frontiera. Il giorno cede il passo alla notte con riluttanza, ritagliandosi nel cielo squarci luminosi che virano al blu. In questa piccola vallata si sdraia un lago che sfocia nel mare un centinaio di miglia più a sud, la sua acqua sciaborda con onde leggere, nel suo odore c’è appena una venatura di salmastro.
La strada mi aveva cotto le gambe ed i pensieri; è stato un piacere fisico, ieri sera, fare due passi sull’asfalto, sgranchirmi le articolazioni e lasciarmi schiaffeggiare dal vento freddo; fumare una sigaretta in santa pace guardando le luci del villaggio bianco sulla sponda opposta del lago; potermi chiedere qualcosa delle facce e dei pensieri degli uomini che vivono al di là dell’acqua, poterlo fare e non farlo: scegliere di essere leggera.
Abbiamo sistemato i bagagli nella piccola stanza rosata con letti separati che ci hanno assegnato alla reception. L’arredamento è vecchio e squallido, odora di polvere e di varia umanità, delle persone che hanno alloggiato qui prima di noi. Ma per noi va bene così, noi siamo alla ricerca solo di un riparo caldo per una notte o forse due, di qualcosa che ci accolga e ci consenta di restare distanti. Mi sono sentita esausta poi, nel pub rumoroso, mentre sforchettavo tra le salsicce e la poltiglia di patate e succo di mela che fumava dal mio piatto, stanca ma quasi appagata, mentre mi rimpinzavo lo stomaco e la birra scivolava giù fresca a liberare altro spazio. La mia coscienza vacillava tra la veglia e il sonno e non pensavo nemmeno più a Massimo, mi abbandonavo alla mia stanchezza e all’intorpidimento dei sensi, lasciavo che si dilatassero a dismisura nel mio stomaco, senza opporre resistenza. Andrew ha detto: “Lo sai che lei è bellissima…” ed io ho sbattuto le palpebre e mi sono guardata attorno al rallentatore tra il fumo e le luci melliflue alle pareti, prima di capire che stava parlando di me e questo è stato sufficiente a farmi ritrovare un contatto con la realtà. Gli ho fatto un breve discorso didascalico sulla nostra amicizia. Lui ha emesso un piccolo sospiro rassegnato, l’ho guardato deglutire ciò che rimaneva della sua seconda pinta di Ale. La mia birra era ormai calda come brodaglia, ma l’ho finita lo stesso, con la sigaretta accesa tra le dita e i piedi che battevano un ritmo nervoso sulla moquette. Avevo solo voglia che la musica tacesse e che fosse già domani. E poi non sono affatto bellissima.
Oggi percorreremo una strada che si snoda tra montagne più alte e più cupe di quelle che attorniano il paesello dove alloggiamo. Siamo diretti verso uno dei castelli più suggestivi e meglio conservati della Scozia occidentale. Il cielo è grigio, gonfio di tempesta più che di vento. Chiedo ad Andrew di accendere il riscaldamento mentre lasciamo il parcheggio e ci dirigiamo a nord. Lui mi guarda con un’interrogazione ansiosa negli occhi azzurri, quasi trasparenti. Gli dico che sto bene, che ho freddo e che devo solo svegliarmi del tutto. Lasciamo Fort William con un CD dei Clannad nel lettore e grosse gocce di pioggia che si riversano sul parabrezza a secchiate violente. Dopo una decina di minuti di strada notiamo un lago oblungo alla nostra sinistra, parzialmente nascosto dalle rocce alte che digradano verso la sua riva. Non c’è anima viva lì attorno, dall’abitacolo riusciamo a percepire solo frescura d’acqua e silenzio. Andrew dice che al ritorno potremmo fermarci lì e fare un pic-nic. Dice che potrebbe insegnarmi a lanciare i sassi sulla superficie dell’acqua e a farli saltare. Fino a dieci rimbalzi, mi dice. Mi giro a guardare il suo profilo di nuovo concentrato sulla strada ed è pallido e ossuto, squadrato e delicato assieme, mentalmente gli sorrido e mi sento quasi a casa. Oggi ho deciso di essere felice. Dopo avere visitato il castello ci siamo fermati sull’isoletta che lo ospita, sugli scogli erano aggrappate conchiglie così antiche che parevano fossili. Mi è piaciuto far scorrere le dita sulla loro superficie rugosa; non pioveva più. Andrew era impaziente di tornare sul lago e di allestire il nostro pic-nic sulla strada verso casa. Abbiamo comprato birra e patatine al negozio del distributore di benzina; io mi sono accomodata sul sedile, pronta a lasciarmi venire la strada incontro. Abbiamo raggiunto il lago nel giro di mezz’ora, parcheggiato in un’ansa ghiaiosa occupata per un decimo dalla casupola di latta di un rivenditore di hot dog. Ci dirigiamo verso la sponda del lago, oltrepassando un rigagnolo nel punto in cui alcuni sassi formano una piccola cascata; raggiungiamo un isolotto infestato di mosche. Ricomincia a piovere un’acqua sottile, le mosche vanno a riposo, noi scendiamo verso la riva. Sgranocchio le patatine seduta su un sasso, guardo la foschia alzarsi dall’acqua e raggiungere il cielo. Andrew sceglie con cura i sassi sulla riva, devono essere piatti e non troppo pesanti, mi spiega. Ne trova alcuni, li mette in tasca tutti tranne uno, si accuccia a pelo dell’acqua e lo scaglia lontano, cinque rimbalzi leggeri prima di vederlo affondare nel lago. Si gira a guardarmi con le guance arrossate e un largo sorriso. Mi dice di avvicinarmi, mi consegna un sassolino, mi spiega come fare. Il segreto sta nella rotazione, dice, non sono le dita che devono dare la spinta, ma solo assecondare il movimento del polso. Ci provo. Il mio sasso affonda subito con un risucchio sordo nel fondo del lago. Andrew non si dà per vinto, mi mostra il movimento nell’aria, la mano bianchissima che taglia la pioggia. Mi riaccuccio, fronte corrugata, occhi concentrati. Ogni volta che mi sembra il momento giusto, cambio idea e abbasso la mano, dico che non ce la posso fare. E all’improvviso lo lancio lontano, senza pensare. Quattro rimbalzi. Mi alzo in piedi sulla roccia, urlando e ridendo di allegria e incredulità. E’ la prima volta da anni che riesco a vivere il momento.