TRIESTE e le cinque R

Luciano Comida [email protected]

Forse bastano cinque parole che cominciano tutte con la lettera erre per spiegare Trieste.
Rimpianto è la prima. Perché tanti triestini continuano a pensare con nostalgia ad un passato che pure, di persona, non hanno mai vissuto: la perduta e favolosa epoca dell’Impero Austro-Ungarico, quando Trieste era il principale porto della monarchia asburgica. Sono trascorsi ottantasette anni da quando, nel 1918, finì la prima guerra mondiale e con essa scomparve quel vasto impero multietnico. Eppure, a Trieste ne sopravvivono ancora numerosi echi: ecco il monumento e il mito dell’imperatrice Sissi, la frase ricorrente “ah… quando ghe iera l’Austria…”, molte indicazioni topografiche (a partire dal centrale borgo teresiano, dal nome di un’altra imperatrice, Maria Teresa), un certo ordine e rigore mitteleuropei che però stridono con certi aspetti profondamente levantini, abitudini e modi di dire che sopravvivono vivi e vegeti. Nella realtà della storia l’Austria non era tutta luce e quella che ora sembra risplendere come un leggendario gioiello era anche un intreccio di ingiustizie e contraddizioni. Ma opporsi ai ricordi, in gran parte inventati, di quella mitica ed irripetibile età dell’oro è difficile come opporsi allo tsunami.
E allora sul terreno del rimpianto, nasce e cresce la seconda parola: il Rancore. Il ragionamento di partenza è molto semplice e, come tutti i facili sillogismi, molto difficile da smontare: se una volta a Trieste si stava così bene e ora non più, di qualcuno sarà la colpa. L’elenco dei responsabili è sterminato: per certi la prima colpevole è l’Italia che, subentrata all’Austria, non si è mai comportata con i propri figli triestini come una madre amorevole bensì come una ingrata matrigna. E a nulla vale spiegare a questo qualcuno che non è coerente tifare prima per Vienna e poi per Roma. Per altri invece il colpevole è l’Europa, che allargando i propri mercati ha sminuito il ruolo di Trieste a vantaggio dei porti tedeschi, primo fra tutti Amburgo. Per altri ancora i colpevoli sono Stati Uniti e Gran Bretagna che, dopo la seconda guerra mondiale, non fecero di Trieste un Territorio Libero, una specie di Montecarlo che si sarebbe arricchita in mille modi. Per qualcuno i responsabili sono le generazioni nuove, che avrebbero tradito gli ideali del passato. Per altri poi i colpevoli sono gli slavi (intendendo con questo termine generico sloveni, croati, serbi, montenegrini, macedoni), che avrebbero sempre alitato il loro fiato predatore sul collo dei triestini.
Ma come sempre, il rancore contro le presunte colpe degli altri si accompagna con il suo diabolico gemello: la terza parola, la Rimozione. E così, i triestini si sforzano di ignorare i torti inflitti agli altri. Molti triestini di etnia italiana non sanno, o fingono di non sapere, cosa fece il fascismo in queste terre, quale spietata politica di repressione attuò contro gli sloveni ed i croati durante il ventennio, quali orrori l’esercito italiano perpetrò contro i partigiani e contro i civili al fianco degli alleati tedeschi, durante l’invasione della Jugoslavia, contro i partigiani e contro i civili. Una parte dei triestini trascura l’esistenza in città dell’unico campo di sterminio nazista esistente in Italia, la Risiera di San Sabba. Ma anche molti triestini di etnia slovena o croata non sanno, o fingono di non sapere, che soprattutto negli anni tra il 1943 e il 1953 il regime comunista jugoslavo commise orrendi crimini contro i propri potenziali oppositori, primi fra tutti gli italiani dell’Istria. In ogni caso, il vertice massimo della rimozione lo raggiungono gli esponenti di AN, figli del Movimento Sociale e nipoti del fascismo: riescono a piangere indignati e commossi sulle foibe senza mai spendere una parola contro il fascismo e contro il nazismo. Riescono a commemorare lo sterminio degli ebrei, la Shoah, e contemporaneamente pretendono che chi combatteva a fianco dei nazisti partecipando di fatto a quel massacro venga onorato.
Ma se rimuovere significa inghiottire e nascondere qualcosa, a volte questo qualcosa torna su come un boccone acido: ecco allora la quarta parola, il Rigurgito. E così, a Trieste, si continua da decenni a usare i morti come se fossero oggetti contundenti da sbattere in faccia ad un nemico. Molti che hanno imparato solo qualche rozzo slogan pretendono di fare lezioni di storia vomitando il proprio rancore, molti sembrano per anni persone equilibrate e sagge ma poi di colpo rigurgitano fuori il proprio ottuso nazionalismo, molti pensano che comunque ed in ogni caso la propria etnia vada difesa qualunque atrocità abbia commesso e gli stessi pensano che comunque ed in ogni caso l’etnia degli altri vada condannata qualunque torto abbia subito. E più ci si rende conto di avere imboccato una strada sbagliata, suicida e distruttiva, più si alza il tono dello scontro; più si capisce di essere ingenerosi, più ci si tappa l’occhio che potrebbe offrire una visione ampia ed obiettiva.
E davanti a tutto ciò, davanti a questa volontà di non capire e di non aprirsi all’altro, in molti cittadini triestini affiora la tentazione di aggrapparsi al rifugio triste e rinunciatario della quinta parola: la Rassegnazione. La tentazione di dire: voi che guardate al passato solo per puntarlo contro gli altri, voi che usate il passato solo per avvelenarci il futuro, andate all’inferno. O meglio restateci. Ma non vi venga in mente di chiederci di accompagnarvi.